Nato a Cerano da Carolina, piemontese, e da Luigi originario di Spinazzola in Puglia, Mari frequentò l’Accademia di Brera dal 1952 al 1956 formandosi in letteratura e arte, e approfondendo i temi della psicologia della percezione visuale. Finiti gli studi, si dedicò subito al nascente mondo del disegno industriale, presentando il suo primo progetto al produttore di arredi milanese Danese nel 1957. Mari applicò alla sua produzione i suoi studi personali sui temi della percezione e dell’aspetto sociale del design, alla sua funzione nella vita quotidiana e al ruolo del designer nel processo industriale. Il designer, secondo Mari, non si sarebbe dovuto limitare alla creazione di oggetti belli e forme piacevoli: l’aspetto funzionale era imprescindibile, così come lo era l’efficienza delle scelte progettuali in campo di materiali e lavorazioni, non può esservi poesia senza metodo.
Mari recupera lo slogan del Movimento dell’Arte Programmata, di cui era stato esponente in gioventù, che cita: il nostro scopo è fare di te un partner. L’utente non è più consumatore passivo, ma diventa un fruitore di un oggetto e di un processo (quello del design) in cui ha una parte attiva. Secondo un altro grande del design italiano, Alessandro Mendini, Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari invece è la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designers, questo importa. Critico verso ciò che è diventato il design una volta conclusa l’epoca d’oro degli anni sessanta e settanta, Mari attribuisce al marketing la colpa di aver trasformato il designer da filosofo creativo in semplice interprete di tendenze. A fronte di queste considerazioni, nel 1999 Mari scrive il Manifesto di Barcellona, in cui sostiene che è necessario ritornare alla “tensione utopizzante delle origini del design” e invoca un nuovo giuramento di Ippocrate per cui “l’etica è l’obiettivo di ogni progetto”.